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MACERIA VIVA

 

 

MACERIA VIVA

di Luisa Maria Mengolini
Foto-Monumento-Maceria-Viva-sito

 

Sette estratti da "Le 127 giornate di Riolo" di Leonida Costa

I.

Frattanto l’immane bufera si addensava all’orizzonte, annunciandosi da lontano con lampi e cupo brontolio di cannoni.

Nell’autunno incipiente, come radi goccioloni forieri di tempesta, piovvero le prime bombe sulle strade, sui ponti, sull’abitato: ci furono morti e feriti.

La gente si fece più pavida e prudente; scavò rifugi diurni nelle marne dei calanchi, si trincerò di notte nelle case, in trepida attesa.

Finchè, dopo un continuo pauroso crescendo, il 5 dicembre, l’inferno della guerra si scatenò sul piccolo paese, investendolo dalle soprastanti colline e dal cielo con fragorose micidiali ondate di ferro e di fuoco.

(p. 15)

I video_pagina 15 (8.950kB - MP4)

II.

Nei momenti in cui le artiglierie e gli aerei alleati trasformavano la Valle del Senio in una bolgia infernale e perfino i più arditi soldati del Reich, si acquattavano nei rifugi, Battista Santandrea, detto Bastè d’la Pónta, usciva di casa, avvolto nella capparella e, portandosi appresso una sedia, andava ad assistere al terribile ma pur avvincente spettacolo, quasi si trattasse di fuochi d’artificio.

«Già che questi spettacoli ci costano così cari» pensava l’impavido Bastè «almeno godiamoceli per intero».

(p. 23)

II Video_pagina 23 (6.165kB - MP4)

III.

Agli abitanti del Rio Vecchio l’ordine di abbandonare le case giunse, improvviso, il 12 febbraio.

La triste comitiva, inverosimilmente carica di sacchi e fagotti, stava dirigendosi verso il paese, allorchè nei pressi del Ponte di Ferro incappò in uno dei tanti sentieri minati.

Le esplosioni rimbombarono sinistramente entro la valle: e poi che ne fu spenta l’eco, si udirono dalle Mura di Riolo le grida lamentose dei feriti, che andavano via via affievolendosi.

La zona era in gran parte minata e, di giorno, incessantemente battuta dalle artiglierie: e quando, calate le tenebre, alcuni civili, guidati da Tedeschi che conoscevano l’ubicazione delle mine, scesero in loro soccorso, era ormai troppo tardi.

C’era tra quelle voci di spasimo, una voce di fanciullo, disperata, straziante. Invocò a lungo la madre che giaceva morta al suo fianco; invocò la pietà di Dio e degli uomini, invano.

Poi tacque per sempre: ma chi l’udì non potrà mai dimenticarla.

(p. 40)

III Video_pagina 40 (12.668kB - MP4)

IV.

Quando il 5 dicembre ebbe inizio il finimondo, coloro che meno s’impressionarono furono naturalmente i sordi.

Aristide Baroni, ad esempio, che abitava a Galisterna con la figlia M. Giacinta, non faceva gran caso alla guerra. Aveva 91 anni sonati ed era quasi del tutto sordo.

Un giorno una granata investì il suo tetto con fragore infernale, spazzandone via buona parte. La casa tutta ne tremò e anche il vecchio Aristide dovette pur avvertire qualche indistinto rumore:

«Cinta» chiese infatti pacatamente alla figlia, tutta raggomitolata per la paura «pare a me o si sta levando il vento?».

Quando tutti si rifugiarono nelle cantine, egli si ostinò a rimanere nella sua cameretta al 1° piano. E la figlia a scongiurarlo:

«Babbo, scendi con noi in cantina! Qui potrebbe entrare una granata dalla finestra e ucciderti!»

«Va bene!» rispose il vecchio quand’ebbe finalmente inteso «ti prometto che terrò sempre la finestra chiusa».

(pp. 47-48)

IV Video_pagine 47-48 (10.880kB - MP4)

V.

Pare che le avversità corrodano il fegato, ma in compenso aguzzano l’ingegno. Col passare del tempo i Riolesi si facevano sempre più scaltri, più industriosi.

Si organizzarono nelle cantine e fuori; provvidero al pronto soccorso, al trasporto dei feriti, alla sepoltura dei morti, all’approvigionamento; studiarono il modo e procurarono i mezzi per rendere la loro vita, per quanto possibile, meno incomoda e pericolosa, per salvare il salvabile; costruirono barricate e trincee, nascondigli per i viveri e le cose più preziose, rifugi segreti da usare in caso di necessità; scavarono sotto terra una rete di gallerie che collegava una cantina all’altra e permetteva di sfuggire alle ispezioni tedesche; crearono centri per la distribuzione dei viveri, della legna, delle medicine e per la diffusione delle notizie; stabilirono turni di guardia per segnalare l’avvicinarsi di pattuglie, usarono pietre e macinini per ridurre il grano in farina; sfruttarono l’acqua salata delle loro sorgenti per ovviare alla mancanza di sale…

Lo studente Giorgio Gellini, i giovani Franco Sabattani e Sergio Andreani segavano alberi nei viali devastati e ammonticchiarono tanta legna da ardere, che ne rimase anche per il dopoguerra; il farmacista Prometeo Cavara preparava medicamenti in una stamberga della Rocca, Enrico Ghinassi fungeva da dispensiere e andava in cerca di viveri; Domenico Ravaglia e Paolo Manzoni recavano gli ordini del Comun; Mario Zama, Marsilio Barlotti, Francesco Lullini, Amato Calderoni e Nino Santandrea svolgevano mansioni varie a disposizione del Commissario; Paride e Giuseppe Pederzoli, Gino Padovani, Valerio Poggi, Antonio Cavina, Pippo Montevecchi, Amilcare Lanzoni, Vincenzo e Giorgio Poggi, Francesco e Carlo Mainetti frullavano incessantemente i macinini per provvedere farina; Gigino Savioli e Aurelio Ponzi si erano improvvisati fornai e Francesco Caroli, cuoco della mensa comunale; Primo Sangiorgi e Gino Raffaellini macellavano le bestie, quando se ne trovavano, e distribuivano la carne; Antonio Poggi portava pentoloni di minestra ai rifugiati del Rio Vecchio; Alberto Girotti distribuiva viveri agli affamati; Celso Menni si spingeva coraggiosamente fino a Bologna per procurare macinini; Carlo Pambieri nella sua cantina, alla «Palazza», provvedeva al sostentamento di ben 87 persone e, ogni volta che le granate sfondavano il tetto, per dovere d’ospitalità, saliva a rabberciarlo…

(pp. 79-80)

V Video_pagine 79-80 (26.460kB - MP4)

VI.

Cresceva di giorno in giorno il numero dei morti e dei feriti; la minaccia per la salute pubblica; la somma dei pericoli e delle rinunce; il cumulo delle rovine: ma insieme anche il coraggio, la rassegnazione, la forza d’animo dei cittadini.

A questo mondo si finisce per fare l’abitudine a tutto, perfino ai più orridi e mortali flagelli.

Ciuìna aveva le spalle rotte dalla fatica e si fornì di un carretto.

Quando transitava per il paese col triste carico dei cadaveri coperti da lenzuoli, che lasciavano tuttavia intravvedere qualche piede o braccio penzolante dalle sponde, la gente non vi faceva più caso.

Una volta, come giunse al Cinema, si accorse di aver perso un morto per la strada: era scivolato dal carretto troppo pieno e traballante sulle macerie.

(p. 82)

VI Video_pagina 82 (10.064kB - MP4)

VII.

I Morti!

Nel cimitero di Saletto, nei piccoli cimiteri di campagna, nei cimiteri delle vicine città, riposano i nostri seicento Caduti.

Dalle lor tombe, liberi da ogni umana cura e placati nella serenità della morte, Essi paiono inviarci un tacito messaggio.

Ascoltiamolo, in silenzio!

E sia per tutti, nell’ora che volge incerta e grave, un messaggio di pace, d’amore, di fratellanza.

(p. 99)

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CONCETTO, ICONOGRAFIA, SIGNIFICATO

L’idea che propongo per commemorare le vittime civili di Riolo Terme nel secondo conflitto mondiale consiste in una scultura che mette in relazione rappresentazione figurativa plastica e interattività digitale. L’opera raffigura un blocco verticale di materia solida in frantumi, come un frammento di edificio semidistrutto; ai piedi della struttura sono ammucchiate le sue macerie. Questa immagine doveva essere consueta agli occhi di chi visse gli anni della guerra, come si legge nelle testimonianze raccolte da Leonida Costa nel libro Le 127 giornate di Riolo Terme. Oggi è difficile concepire e comprendere un tale evento: la materia in frantumi è figura che rievoca la distruzione concreta e improvvisa delle case, luoghi che racchiudono la storia familiare dei propri abitanti, “luoghi viventi” che spesso incarnano idee di protezione e sicurezza. L’immagine immediata e concreta della distruzione pone attenzione al tema delle rovine, topos che è tanto vitale e pregnante nel tempo presente quanto connesso alla dimensione del passato, della distruzione, della storia delle vittime.

Tra le macerie e i resti della casa immaginaria si trovano oggetti-simbolo della vita quotidiana: una penna, un paio di forbici, un cucchiaio, un libro, un orologio, un metro da sarta, un aeroplanino di carta. Questi oggetti comuni fanno parte tanto della vita di allora quanto di quella odierna, anche con tutte le trasformazioni storiche che sono avvenute. Ma essi, posti in relazione con lo scenario delle macerie rievocano immediatamente la storia delle vittime e l’innocenza della loro quotidianità infranta dalla calamità della guerra. Il surreale equilibrio con cui sono poggiati questi oggetti sulle macerie rammenta la loro simbolicità: essi sono la rappresentazione di vite del tutto aliene alle logiche di una guerra mondiale. Come scrive Costa: «Per loro le lotte politiche e le guerre erano nell’ordine delle calamità naturali, che esistono e non si sa perché, come la grandine che distrugge il raccolto, come la ruggine e i parassiti che s’attaccano alle piante, come le frane che cambiano faccia alla terra […]». Ogni oggetto è al contempo una cosa concreta e un’idea-simbolo di una dimensione dell’esistenza: alcuni sono connessi alla sfera della creazione (la penna, le forbici, il metro), contrapposta alla distruzione della guerra rappresentata dalle macerie; altri richiamano l’idea del passatempo o del tempo che passa (l’areoplanino, il libro, l’orologio), ponendo una riflessione sul senso della storia e della relazione tra vittime e tragedia storica che infrange il senso stesso del tempo.

Oltre agli oggetti tra le macerie emergono fiori che esprimono al contempo la commemorazione dei morti e un’idea di redenzione e rinascita. Nella memoria e nella comprensione della storia si delinea una ri-significazione della distruzione e della tragedia. Le macerie non sono solo frantumi materiali ma anche ideali: la frammentazione di significati e idee che ha generato la catastrofe è il momento da cui comincia la memoria e la ricostruzione di senso.

Il tema dei frammenti si ritrova nella Prefazione de Le 127 giornate di Riolo di Leonida Costa: questo libro costituisce in un certo senso la chiave di lettura del monumento. Costa scrive: «Forse a taluno il libro […] risulterà frammentario, come frammentarie e incomplete sono le notizie che ho potuto raccogliere sull’intera vicenda». Costa si trovava in trincea durante la guerra, non a Riolo; quando vi tornerà, troverà la distruzione già compiuta e un’inconciliabile perdita di senso: «Reduce, la vidi tutta d’un colpo l’immane rovina: e rimasi annichilito e senza parole […]». Costa non si ferma a questa constatazione, ma comprende la necessità di ricostruire, raccontare, ricordare la storia, o meglio le storie: «ora che tutto è passato, ho voluto vivere giorno per giorno, almeno col pensiero, la grande tragedia del mio paese, frugando nei labili ricordi dei superstiti, cercando ansiosamente fra carte ingiallite, fotografie e vecchi giornali, nei registri dei Morti e fra le tombe».

Memoria e ricerca sono gli stessi principi di lettura del monumento. Chi lo osserva può meditare sulle circostanze, sugli eventi, sulle sensazioni che dovettero vivere i riolesi negli anni della guerra, ponendosi in relazione attiva con l’opera, conducendo autonomamente pensieri sulle forme simboliche degli oggetti e i loro significati intorno al ricordo dei morti. Questa funzione partecipativa caratterizza anche la componente interattiva del monumento: in alcuni punti tra le macerie si trovano placchette con codici a barre (codici QR) che possono essere letti dalla maggior parte dei device mobili. La lettura di questi codici da parte del cellulare o altro device apre a una pagina digitale (potrebbe essere una pagina dal sito dell’Istituto Storico della Resistenza e dell'Età Contemporanea in Ravenna e Provincia, in una sezione dedicata) in cui si legge un breve estratto da Le 127 giornate di Riolo di Leonida Costa. Gli scritti scelti sono brevi scorci sulla storia della guerra a Riolo, la stessa tragedia vista da occhi e prospettive diverse, per suggerire, come intendeva Costa, di conoscere e ricordare la storia come una narrazione corale, non un monolite ma una complessità frammentaria fatta di esperienze diverse e concrete.

Questo elemento, meno tradizionale della rappresentazione figurativa della scultura, apre a una dimensione di interazione e relazione attiva con il monumento conferendogli un’espressività innovativa (per quanto semplice e immediata nel suo meccanismo) che comprende mezzi di comunicazione tecnologici. La dimensione digitale, anche se semplicemente veicolata da pagine del sito dell’Istituto che si aprono tramite lettura di un codice QR, connota il monumento di dinamicità e possibilità di riformulazione. Questa forma comunicativa è radicalmente connessa al significato del monumento; esso non si esaurisce nella materia concreta delle macerie rappresentate, espressione di morte e fine. La storia è materia viva, e le macerie stesse racchiudono un significato, rappresentato tanto dagli oggetti-simbolo quanto dai codici che aprono gli scritti; esso si può e si deve indagare, e le parole di chi ha vissuto quella storia, come scrive Costa, conducono la memoria e la ri-significazione in cui siamo impegnati oggi.

Il tema iconografico delle rovine viene così riformulato in un’opera composita, connotata da semplici ma espressivi codici ed elementi simbolici, incaricata al contempo di commemorare le vittime, ricordarne le vicende, ispirare analisi e meditazioni sul senso della storia.